(Condivido con piacere un'interessante riflessione inviatami dall'amico Luca come contributo all'evento SIPNEI in corso di preparazione che si terrà a Firenze il giorno 3 febbraio dal titolo: L'era digitale: dalle potenzialità ai danni. Un'iniziativa anticipata anche da una indagine, ancora in corso in forma di questionario (Era Digitale, effetti e trasformazioni in atto) pensato come monitoraggio delle relazioni con la tecnologia. Invito tutti a unirsi alle centinaia di persone che vi hanno già partecipato.)
La metafora della porta
La metafora della 'porta’ usata per definire le reti sociali indica insieme un modo di intendere lo spazio digitale e un modo di abitarlo: perché il web non è un semplice strumento che va “usato”, ma un luogo di relazioni che va “abitato”, quindi non solo “riempire lo spazio”, ma anche “fare spazio”, sottraendo piuttosto che aggiungendo; lasciarsi abitare per poter abitare; mettersi in gioco per poter educare; testimoniare per essere contagiosi.
L’arte dell’abitare non può essere principalmente quella di edificare mura, ma è prima di tutto quella di allestire gli spazi dell’incontro, senza i quali, pensando di difenderci, resteremmo intrappolati in mondi-prigione. La ‘porta’ dice anche di una discontinuità che richiama la nostra attenzione sulle differenze tra gli spazi che essa unisce mentre separa. Pensiamo a quanta attenzione e cura le diverse culture dedicano ai “riti della soglia”, per capire il valore antropologico di questo spazio di confine e di transito.
In questo contesto di immersività e immediatezza l’arte di narrare giunge al tramonto incalzata dalla velocità di una informazione frammentata che diventa obsoleta nell’arco di un giorno; e questo porta a un declino di civiltà.
Grandi consumatori di notizie ma incapaci di raccontare
Nella società dell’informazione si rischia di diventare grandi consumatori di notizie ma incapaci di raccontare. E il racconto, la narrazione, è uno strumento comunicativo ed educativo preziosissimo. Intanto, è una «palestra etica», che ci costringere a discernere tra cosa è importante e cosa no, a mettere in ordine gli avvenimenti secondo un filo di collegamento capace di interpretarli, a prendere posizione su cosa è bene e cosa è male. E poi la narrazione è sempre polifonica, perché intreccia le voci e le vicende di tanti, e anche “policronica”, perché abbraccia presente passato e futuro, biografie personali e storia collettiva.
È un modo di tramandare ciò che si è ricevuto, perché́ possa essere trasmesso a sua volta. Un modo concreto in cui ciò che ha valore universale diventa comprensibile attraverso immagini legate alla vita.
Presente continuo e presente
Ma perché il «miracolo della comunicazione», possa accadere sono necessarie anche altre condizioni. Una di queste è il silenzio. Siamo abituati, da una cultura che accumula frammenti incoerenti esaltando l’istante, a pensare solo al presente, riempiendolo il più possibile per renderlo denso e intenso. Invece, vi è una via diversa, che non passa dalla saturazione ma dal fare spazio, dal lasciare aperta “Quando parola e silenzio si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora (...); quando, invece, si integrano reciprocamente, la comunicazione acquista valore e significato”.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
La parola che non nasce dal silenzio (dall’interiorità, dalla riflessione, dall’ascolto, dalla preghiera, dalla meditazione) è vuota chiacchiera, che solo apparentemente risponde al bisogno umano originario di comunicare, ma in realtà lo anestetizza temporaneamente. Il silenzio è «uno spazio di ascolto reciproco» in cui «diventa possibile una relazione umana più piena».
Soprattutto in un mondo in cui è possibile vedere senza essere visti, stare sempre connessi senza essere realmente in relazione, scambiarsi messaggi senza ascoltare veramente. Dove è sempre più difficile tollerare i tempi vuoti, le attese, i momenti di inattività; dove è così comune ciò che già Bauman intravvedeva: il non saper stare né veramente da soli né veramente con altri. Forse la fatica a raccontare e la predilezione per altri stili comunicativi, a volte troppo astratti, ha giocato un ruolo non irrilevante nella perdita di evidenza sociale della religione.
Una realtà fatta di tante stanze, tante città, tutte diverse
In un mondo in cui tende a prevalere un regime di equivalenze generalizzate e in cui tutto, alla fine, diventa questione di opinione e gusti personali, è opportuno affermare che le differenze ci sono. La realtà è fatta di tante stanze, tante case, tante città, tutte diverse. Ma ognuna di esse non è un universo a sé, autoreferenziale, separato e in competizione con gli altri, ma fa parte di un unico mondo.
La realtà è una, benché variegata al suo interno. E non è “uguale” essere in uno spazio piuttosto che in un altro. Ogni luogo ha le sue regole e i suoi comportamenti appropriati, legati al suo significato, che va ascoltato. Il digitale dunque non è in competizione con la realtà materiale, né rappresenta per vocazione uno spazio di inautenticità; non più di quanto non lo sia qualunque contesto sociale. Noi siamo gli stessi, online e offline, l’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone. È parte del tessuto stesso della società. Tanti spazi, tutti diversi e ciascuno con il proprio significato, e una vita sola.
L'importanza di lasciare le porte aperte
Una vita, e questo è l’altro nucleo, che deve lasciare le porte aperte, non solo verso il “fuori”, ma anche verso l’alto. Se la rete è il luogo dove emergono tutte le domande e le preoccupazioni dell’essere umano oggi, non è però il luogo di tutte le risposte.
C’è una incompatibilità strutturale tra i nuovi linguaggi e i messaggi senza tempo?
Certamente no, si riconosce l’autorevolezza di chi parla con credibilità: che significa a partire dall’esperienza; o, in altre parole, a partire da una sintonia tra parole e vita.
La vera sfida è oggi dunque quella della trascendenza: essere pienamente dentro, ma affacciati su un altrove; essere “nel web”, ma non “del web”.
La rete rende possibile un’orizzontalità certamente preziosa, ma insufficiente: i social media “dicono” qualcosa di bisogni autentici: incontro, relazione, vicinanza, condivisione, comunione, ma è la verticalità che buca la rete e restituisce all’orizzontalità il suo significato pieno e umanizzante.