Una volta la cultura designava quel patrimonio di conoscenze artistiche e storiche, filosofiche e scientifiche proprie di una comunità o di un popolo. Il medesimo termine ora aleggia libero come l’aria senza vincolo alcuno. La nozione di cultura è in costante metamorfosi; si è inflazionata a tal punto da essere diventata evanescente, un “fantasma inafferrabile”. Con le migliori intenzioni verso le popolazioni primitive, ha preso una valenza antropologica; e pertanto usi e costumi, praticamente ogni aspetto della vita degli indigeni come di qualsiasi altro popolo, hanno assunto connotazioni culturali da preservare. Poi è sopraggiunta l’ipocrisia a reprimere qualsiasi tentativo di classificazione delle culture medesime, in superiori o inferiori, poiché ciò apparirebbe “politicamente scorretto”, forse imperialista, se non proprio razzista.
Accantonato il concetto tradizionale si arriva alla fase successiva. Il calderone alchemico della post-cultura, detta anche controcultura, contiene e rigenera ogni cosa. Soprattutto “ rimprovera alla cultura il suo elitarismo” e quel legame antico, di connubio con il potere assoluto.
Oggi “la cultura è svago e ciò che non è divertente non è cultura,” constata Mario Vargas Llosa ne La civiltà dello spettacolo. L’unico valore che conta è l’intrattenimento. La gente segue quello che più gradisce, ossia quello che una volta “era considerata dai settori colti, in modo spregiativo, mero passatempo popolare”. I prodotti culturali di altre epoche si prefiggevano di trasmettere alle generazioni future pensieri e opere. I prodotti odierni hanno obiettivi commerciali, fatti per essere consumati subito - come le derrate alimentari. Dettati quasi esclusivamente da esigenze di mercato.
All’indomani del crollo delle banche d’affari (sett. 2008) l’inviato di El Paìs a New York, Claudio Pérez, scrisse che i tabloid di New York cercavano come pazzi un broker che si gettasse nel vuoto da uno degli imponenti grattacieli che ospitavano le grandi banche d’investimento. “Non credo, commenta Mario Vargas Llosa, che esista immagine capace di riassumere meglio la civiltà cui apparteniamo”.
Quando la civiltà dello spettacolo mette l’intrattenimento in cima alla scala dei valori, ne deriva un “giornalismo irresponsabile” che va a caccia dello scandalo a tutti i costi; e a sua volta il lettore, per sfuggire alla noia, si tuffa a capofitto nella rete tesa dai media. Ma se si chiudono in soffitta le cose passate di moda, se le immagini sostituiscono i pensieri e le idee, si finisce che vengano promossi prodotti artistici e letterari soltanto in base a trovate pubblicitarie. Prodotti, dati in pasto a un pubblico sprovvisto delle difese intellettuali, che autoalimentano la giostra mediatica dell’autoinganno.
Nei concerti musicali, che hanno soppiantato in fervore le festività religiose, la musica amplificata dagli altoparlanti esaltano l’individuo, lo spersonalizzano, nella folla festante la persona “diventa massa e ritorna, inconsciamente, ai tempi primitivi della magia e della tribù”.
Ormai lo spot pubblicitario, la sparata, ha la meglio sul ragionamento e sulle idee. Da quando Marcel Duchamp stabilì che un gabinetto era un’opera d’arte, nelle arti figurative (pittura e scultura) tutto è diventato ammissibile. E’ sparito il confine tra arte e non arte. Né sembra esserci il tentativo di ricerca di “un consenso minimo sui valori estetici”. Impossibile distinguere il bello dal brutto, chi ha talento o chi non ne ha.
Tuttavia il campo dove la civiltà dello spettacolo ha creato e crea maggiore danno è nella politica. Quell’impegno che dovrebbe essere dedicato all’esposizione dei programmi, un tempo fonte d’idee e orientamenti nuovi, ora è interamente assorbito dalla pubblicità e dagli slogan, con il loro corollario di luoghi comuni e mode. Capovolta la scala di valori, contano il gesto e la rappresentazione.
La cultura, quando dipende dalla politica, corre il rischio di trasformarsi in propaganda. Non sono l’intelligenza e la rettitudine a determinare la popolarità e il successo dell’uomo politico, bensì “la demagogia e il talento istrionico”. Accade pertanto la paradossale situazione che vede il potere, nelle società autoritarie, usurpare per fini propri la cultura, mentre nelle società democratiche moderne è la pseudocultura a corrompere e a degradare la politica. Oppure si corrompono a vicenda.
La cultura può spingersi in tutte le direzioni attraverso l’esperimento e la riflessione, “ma non si può allontanare dalla vita reale”.
Foucault è un caso emblematico. Lo contraddistingue la serietà nell’affrontare “le proprie ricerche in diversi campi del sapere... e una vocazione iconoclasta e polemica”. Secondo il filosofo “l’uomo non esiste”, e nel cercare di dimostrarlo ricorre all’artificio intellettuale, cosa che si traduce nella demolizione di ogni autorevolezza nella società. Tra gli slogan del ’68 si è fatto strada il proclama “Proibito proibire!” che ha rappresentato “l’atto di morte del concetto di autorità”.
Jean Baudrillard con impareggiabile destrezza arriva a sostenere che la realtà non esiste più, è stata soppiantata dalla realtà virtuale. L‘informazione è deviante, non assolve il compito d’informarci su quello che avviene nella società. “Lo scandalo, ai nostri giorni, non consiste in un attentato contro i valori morali, ma contro il principio di realtà”.
Questi filosofi ed altri, sono pensatori che giocano con argomentazioni ardite, che utilizzano concetti e parole come “giocolieri”, esponendo le loro teorie attraverso un linguaggio esoterico, forbito e spesso del tutto vuoto.
Il libro Imposture intellettuali, pubblicato nel ’98 da Alan Sokal e Jean Bricmont, fornisce un resoconto dell’uso spregiudicato, a volte “fraudolento delle scienze fatto da filosofi e pensatori prestigiosi”. Vargas Llosa nel definire gli autori del libro appena citato, due “scienziati veri”, mostra da che parte sta. E in fatto di libri, esterna la convinzione che in essi transita il peggio e il meglio dell’avventura umana e che i libri lo aiutano a vivere.
La civiltà dello spettacolo, oltre ad aver messo in soffitta la vecchia cultura, sta demolendo l’erotismo, banalizzando “una delle conquiste più eccelse” della modernità. La volgarità non va confusa con la liberazione sessuale; così pure il venir meno dei pregiudizi “non può significare l’abolizione dei rituali, del mistero, della forma e della discrezione grazie ai quali il sesso si è civilizzato e umanizzato”.
Le catastrofi, i crimini seriali, tutto ciò che è morboso, suscitano nella gente un alto gradimento. Poiché c’è fame di stupore, dal basso viene esercitata una pressione straordinaria sui mezzi di comunicazione. L’approfondimento delle cause e degli ingranaggi non fanno parte integrante della cosiddetta informazione audiovisiva, che si propone in pillole, incalzante, superficiale, stratificata e sovrapponibile, subito rimpiazzata e dimenticata. La leggerezza dello schermo, piccolo o grande che sia, cambia di poco la sostanza.
“Il libertinaggio informativo non ha nulla a che vedere con la libertà di espressione”. Di fronte a rivelazioni del tipo Wikileaks, ossia dove prevale l’aspetto voyeurismo, c’è da chiedersi esiste ancora il privato? La rivoluzione informatica ha fatto saltare gli argini tra privato e pubblico, l’happening della rete attraverso i social network ha trasformati tutti in registi, attori e spettatori.
La cultura ha sempre svolto un ruolo primario nell’evoluzione sociale dei popoli. Se nelle democrazie occidentali la religione cattolica e quella protestante hanno un ridotto potere di coercizione, e hanno accettato di coesistere con altre, ciò accade non perché siano diventate meno intolleranti rispetto all’islam, ma perché sono state spinte dalle circostanze e da “una pressione sociale che hanno costretto la Chiesa a retrocedere”. Infatti la vera essenza delle religioni è quella manifestata dall’islamismo, perché le società dove esso ha attecchito non hanno ancora “sperimentato il processo di secolarizzazione che, in Occidente, ha separato la religione dallo Stato”.
Ed ecco la rivelazione più sentita sull’argomento cultura. “Quando leggevo determinati libri, riviste e periodici, mi aggrediva la scomoda sensazione di essere preso in giro”. Confessa l’autore di sentirsi indifeso, come “di fronte a una cospirazione schiacciante”. Come ha potuto il mondo culturale deteriorarsi sino a diventare tutt’altra cosa rispetto a ciò che i nostri genitori conoscevano? Siamo immersi in un’idea di progresso ingannevole. Da un lato l’umanità ha sperimentato uno sviluppo senza precedenti, dall’altro “non è mai stata meno certa la sopravvivenza della specie per i rischi di un conflitto o di un incidente atomico”. La cultura in tutte le sue manifestazioni dovrebbe affrontare problemi simili. Invece continuiamo a trastullarci in un meccanismo di evasione che rassomiglia a un vacuo “paradiso artificiale”, inafferrabile quanto le forme cangianti di un caleidoscopio. Tutto avviene come se il Gran Guignol del Villaggio globale avesse cambiato strategia spalancando, culturalmente, l’accesso al Paese dei balocchi.
Antonio Fiorella
La civiltà dello spettacolo, Mario Vargas Llosa, Einaudi