In treno veritas?
Quando andavo in giro con il mio bellissimo Lumia 1020 (preso molto usato, non sono e non sarò mai un utente da “top di gamma”!), di fronte al tentativo di Windows phone, ormai ai margini del mercato, di connettersi, il wi-fi delle frecce Trenitalia mi diceva “dispositivo non supportato!”
Eh? Che cosa c’entra il “dispositivo”? Non basterebbero un nome utente e una password, dopo di che l’aggeggio potrei essermelo anche fatto io in casa, cosa interessa a loro? E invece no: alla connessione sono ammessi solo i “dispositivi” previsti da un catalogo in cui il tipico burocrate digitale, del tutto infischiandosene di come funziona davvero una connessione wi-fi, chiama semplicemente all’appello i sistemi operativi di successo, seguendo l’onda, la moda, il conformismo dilagante che porta oggi i più a identificare la “tecnologia” con il successo di mercato.
Su Italo treno invece (che ha sempre ammesso il Lumia senza problemi) mi è successa un’altra cosa con un telefono Android preso da poco, zeppo di “firmware” per altro generalmente piuttosto buono. Mi appare sullo schermo un codice QR con la scritta: ”Scansiona il codice!” Prego, quel codice? Come faccio a scandire un codice che vedo solo sullo schermo del dispositivo con cui presumibilmente dovrei scandirlo? I due soli tasti disponibili offrono opzioni perentorie: “annulla” o “dimentica”. Do qualche occhiata in giro nel mondo fisico intorno, il sedile, il tavolino, la vicina di posto… magari da qualche parte salta fuori un codice… Poi torno al “dispositivo”, provo a toccare su e giù, provo perfino a “fotografare” la schermata…
Bah, sarà che sono ormai vecchio, o che non sono neanche le sette di mattina! Per il momento ci rinuncio, guardo fuori dal finestrino (nebbia!), incomincio a leggere un libro di carta, bello e obsoleto…(In treno scegli il finestrino al display del telefonino)
Dopo un po’ torno sul cellulare e mi dice che è connesso! Davvero? Come ho fatto? Provo a navigare, disattivando per sicurezza i dati mobili e sì, il wi-fi funziona alla perfezione.
Mi sento proprio nel trend, perché in definitiva è quello che succede oggi spesso a molti: riuscire con gli aggeggi digitali a fare di tutto, pur di non capire come riusciamo a farlo!
Ah, e poi c’è il wi-fi della stazione.
Un trillo entusiasta nell’atrio mi annuncia che se voglio posso connettermi e sembra che finalmente non ti chiedano più nemmeno di “registrarti” (cento nomi utenti e cento password per le cento stazioni d’Italia! E magari un semplice accesso libero, per quei pochi minuti di transito, a mio rischio e pericolo?), ma ti concedono anche loro – come ormai si usa - di entrare attraverso Facebook. Per cui la solita tiritera: “Vuoi tu utente dare l’autorizzazione a che io usi il tuo account Facebook, scriva per te, ti succhi a uno a uno tutti i dati dal social network?” “Sì, lo voglio!” Tanto, ormai! E a questo punto il wi-fi della stazione cala l’ultimo messaggio, trionfante: “E adesso per collegarti non ti resta che darmi il tuo numero di telefono!”
E no, che cacchio! Per qualche minuto di cazzeggio prima di salire su un treno? Sai dove te la puoi mettere la tua connessione!
Diamo tutto per scontato e accettiamo tutto passivamente
Sono anni che accettiamo passivamente, facendo finta che siano parte integrante della “tecnologia” (Lo smartphone è misura di tutte le cose), tutta una serie di pratiche e consuetudini che violano l’intelligenza prima ancora che la riservatezza, in un sistema in cui fortune planetarie si costruiscono “chissà come”, dato che offrono agli utenti servizi gratis, e poi però caschiamo dal fico quando scopriamo per esempio che i nostri dati personali vengono utilizzati per fini commerciali, o addirittura possono servire (ma chi l’avrebbe mai detto?) a influenzare in politica gli orientamenti elettorali. Che poi non è che i social network – anche su questo un ragionamentino in più evidentemente costa fatica – determino il voto dei cittadini più di quanto non lo facessero in passato o anche oggi i giornali e la televisione, oppure le prediche dei preti dal pulpito. Ma tant’è, la post verità si nutre di titoli a sensazione, e il confronto con la realtà vera non è richiesto!
Diciamolo chiaro, e non facciamo finta che non sia così: il “digitale”, così come si sta declinando da un paio di decenni in qua, nel complesso sta migliorando la nostra vita molto meno di quanto per inerzia continuiamo a raccontarci! Cioè, in molti casi facilità e semplifica tutta una serie di attività (in altri casi invece le complica, dipende dal nostro approccio e anche, molto, dagli umani che hanno scritto o commissionato il software!), ma nel complesso non ci sta rendendo più felici, sicuri, autonomi, indipendenti. E se questi quattro aggettivi hanno un qualche valore nel definire la qualità della vita, allora forse è il caso qualche pensierino di farlo, su quale futuro, quale mondo, quale umanità vogliamo (Tecnologie che diamo per scontate)
Cosa c'entra la tecnologia?
Non è colpa degli aggeggi, anzi!
Io quelli continuo a trovarli, nella loro efficientissima stupidità, assolutamente meravigliosi! Ho appena eseguito in rete in pochi giorni una ricerca bibliografica che un tempo avrebbero richiesto mesi se non anni in giro per il mondo; sto montando video quasi professionali con tanto di effetti speciali su computer assolutamente qualunque, e anche non riesco a non provare una certa tenerezza quando il telefonino, con il suo solito simpatico trillo, mi avverte che ho camminato i 10.000 passi al giorno indicati per la mia salute! Per non parlare del gruppo di ragazzi di scuola media con cui ho appena finito di lavorare, la cui attività si è sviluppata ben oltre le ore di “lezione”, con un rincorrersi continuo di idee, commenti e materiale audiovisivo che viaggiava attraverso il gruppo Whatsapp…
Oddio, se uno ci ragiona appena un po’, sono tutto sommato piccole cose, gesti quotidiani intuitivi e banali, naturali per ragazzi che in un tal contesto ci crescono. Ma anche molti che ragazzi certo non sono hanno capito che un tweet, un post in Facebook o in Instagrami acchiappano (se sei già potente e famoso fanno notizia nel pianeta e se no, si è comunque popolari tra gli “amici”!) e, non richiedendo in realtà nessun tipo di cultura “digitale”, danno ad intendere comunque al mondo intero che stai nel trend di una post modernità fatta molto più di ideologia che di sostanza, anche se sai soltanto scrivere parole, o “postare” fotografie e video che fanno pena.
Produttori di informazione
E magari neanche ti rendi conto che sei, nel tuo piccolo, un produttore di informazione, dentro una rete globale dove tutto è connesso e raggiungibile, da tutti e per tutti, con un potenziale di democrazia per i cittadini possibili che andrebbe oltre ogni immaginazione e una partecipazione effettiva invece dei cittadini reali di una povertà socialmente imbarazzante, dove anzi la democrazia appare sempre più seriamente a rischio. Non a caso personaggi come Matteo Renzi, Donald Trump, Matteo Salvini hanno individuato in Twitter il luogo ideale della politica 2.0, o 4.0, o vattelappesca comunque punto zero (dove il nulla, cioè lo zero dopo il punto, che in matematica non ha senso alcuno, significativamente è diventato l’icona di una appartenenza a qualcosa tanto più importante quanto del tutto sfuggente, nel suo eventuale significato, alla comprensione dei più; e proprio per questo tutti lo ripetono, per non dare l’idea di non capire una mazza di quello di cui si sta parlando!)
Il cervello che legge e le nuove tecnologie digitali
L’innovazione vera, che magari non si esaurisce nel cambiare una volta all’anno quel leggerissimo e ormai potentissimo computer ultraportatile che alcuni ancora scambiano per un telefonino, senza mai imparare a usarlo davvero, passa altrove, lontana dall’esperienza dell’utente medio consumatore compulsivo e illetterato di tecnologia e compresa soltanto da una ristretta élite che si fa forte della convinzione diffusa, antica e persistente ancorché oggi tecnicamente immotivata, che l’innovazione debba comunque e inevitabilmente essere d’élite.
Quando invece le autentiche rivoluzioni tecnologiche di un passato tanto recente quanto sostanzialmente sconosciuto da una collettività orfana di memoria e per questo incapace di futuro, sono in realtà venute dalla base, dalla partecipazione di massa, dalla condivisione di idee, esperienze e sogni, oltre e perfino contro il potere e la programmazione industriale. Si parla – scusate se è poco – del personal computer e del web, che sconvolsero i monopoli nell’opinione dei più ritenuti inattaccabili, negli anni Settanta di IBM e nei Novanta di Microsoft, costringendo le aziende più potenti del mondo a cambiare radicalmente piani e strategie.
Narcisi postmoderni che non sanno e non vogliono sapere
Ma il Narciso postmoderno che si specchia nello schermo del proprio telefonino non sa e non deve sapere.
Non deve rendersi conto del fatto banale, ubriacante e inconcepibile che il potere è nelle sue mani, un potere piccolo individualmente, ma che moltiplicato per milioni, miliardi di singoli comportamenti costruisce oggi la fortuna della grandi aziende della rete come Facebook e Google, ma potrebbe anche indirizzarsi verso esiti non solo commerciali, se esistessero piattaforme sociali organizzate davvero in senso sociale e se le persone decidessero che è bello partecipare, anche a costo di prendersi una piccola parte di responsabilità.
In realtà, oltre le chiacchiere sulla tecnologia che cambierebbe tutto a grandissima velocità , viviamo in una situazione sostanzialmente stagnante in cui, nella testa e nell’atteggiamento della gente, dei consumatori, dei cittadini valgono di fatto modelli tracciati negli anni Sessanta del secolo scorso, quando Marshall McLuhan avvertiva che “il medium è il messaggio”, Herbert Marcuse descriveva il pensiero unico dell’uomo “a una dimensione” e i cartoni animati dei “Pronipoti” proponevano un modello di “futuro” adatto alla comprensione del volgo, la faccia frivola e spensierata di una società che nel suo lato oscuro prefigurava invece “grandi fratelli” e nuove schiavitù intergalattiche, visioni pessimistiche di una tecnologia che non avrebbe potuto essere che matrigna, in mano tradizionalmente a una ristretta casta dominante, senza speranza alcuna per le persone comuni.
Altre rivoluzioni, prima di quelle tecnologiche
Le rivolte studentesche, giovanili e femministe degli anni Sessanta e Settanta contro questo “futuro” provocarono sensibili scossoni, ma non ebbero un successo duraturo sul piano politico. Mancavano anche i mezzi tecnici, e forse non a caso proprio in quegli anni qualcuno quei mezzi li inventò, che furono davvero a disposizione, facili, potenti ed economici solo qualche anno più tardi, quando l’onda di quei movimenti si era ormai esaurita.
La videoregistrazione casalinga e il personal computer (e ovviamente il web dagli anni Novanta) fondamentalmente significavano una cosa che pochissimi tuttora sembrano avere compreso e su cui ancora meno si riflette, e che secondo la mia umile opinione è il dato fondamentale del tempo presente, oltre tutta la fuffa “sovrastrutturale” che intasa la teoria e la pratica correnti: oggi, nella la società dell’informazione, l’informazione la facciamo tutti noi! Anche se non lo sappiamo, anche se siamo dei perfetti analfabeti!
Cioè, per esempio, tutte le sciocchezze e le porcherie che “postiamo” sui vari social network (chiusi, privati, protetti e controllati, la possibile morte del web, che è invece per sua natura pubblico, aperto e, nel bene e nel male, tendenzialmente incontrollabile!), tutti quei pensieri e parole, video, fotografie, messi lì da miliardi di persone comuni da tutto il pianeta, come in una discussione da bar, in un album di matrimonio, in un pettegolezzo tra amici, ci accorgiamo o no di come stanno cambiando anche i giornali, la televisione, l’informazione in generale, la stessa politica? E dato che tutti siamo produttori di informazione “a nostra insaputa”, dato che nessuno a scuola ci insegna questi nuovi alfabeti e che al mercato tutto sommato conviene che restiamo ignoranti, perché così compriamo di più, la qualità di questa produzione diffusa e condivisa è sempre più bassa e trascina al ribasso anche la qualità generale della televisione, dei giornali, della politica. O no?
Possiamo essere protagonisti, cambiare il mondo e la tecnologia
Dunque, riepilogando. Siamo noi che facciamo in gran parte l’informazione, ma per tradizione, abitudine culturale, incomprensione di strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione solo da pochi anni ed evidentemente non “metabolizzati”, continuiamo come prima a pensare che il potere sia nella mani di qualcun altro, di quelli che “hanno i mezzi”, o delle nuove multinazionali cresciute in pochissimo tempo (quale sarà il loro “segreto”?), senza renderci conto che siamo stati proprio noi (una prova del nostro potenziale potere!) a renderle grandi e senza considerare che in mancanza del nostro quotidiano apporto e sostegno potrebbero crollare da un giorno all’altro. E così il cittadino medio, di qualsiasi età (anche questo è un dato significativo, altro che i ritornelli sul gap tra le generazioni!) non ha oggi in generale alcuna speranza di cambiare un mondo su cui, potenzialmente, avrebbe invece possibilità di intervento enormi, senza precedenti nella storia, se solo si rendesse conto del potere diffuso e condiviso che tutti oggi deteniamo e avesse gli strumenti, di pensiero e software, per agire in modo attivo e consapevole, insieme con tanti altri cittadini medi.
Queste contraddizioni incombenti tra la potenza dei mezzi e la povertà dei risultati, tra la connessione continua degli aggeggi e la disconnessione di fatto tra le persone e i gruppi di umani che genera incapacità di comunicazione, solitudine di massa e conflittualità diffusa, si estendono a tutti i campi - sociale, lavorativo, culturale, politico, personale, affettivo - ci schiacciano e ci inquietano, orientando molti, nell’incapacità di gestire la complessità, verso la ricerca di soluzioni facili e immediate in cui la modernità e la “tecnologia” cedono il passo a istinti e soluzioni vecchi di secoli se non di millenni: l’uomo forte salvatore della Patria, il muro che ferma lo straniero, la diffidenza verso il diverso.
Paura, ignoranza, illusione della gente qualunque di poter “dire la sua” eventualmente alzando i toni e la voce oltre ogni considerazione e rispetto per gli altri (ma chi ci legge in realtà nei social network, chi ci ascolta, vale la pena di impegnarcisi e di litigare tanto?), mentre ci danno ad intendere che la precarietà e l’azzeramento dei diritti del lavoro e chissà forse anche il tentativo di “privatizzare” i semi delle piante di cui viviamo, l’acqua e perché no l’aria dipendano dalle “nuove tecnologie” e non dalla forzatura ideologica di qualcuno che, grazie anche alla nostra ignoranza, partecipazione a vanvera, sostanziale disinteresse, ha tutto l’interesse a piegare – come si sarebbe detto un tempo – lo sviluppo delle nuove forze produttive ai vecchi rapporti di produzione.
Alla base sta sempre l’idea antica di una società basata sul controllo, che va affermato inevitabilmente unico e centralizzato, guidato da una burocrazia galattica intoccabile (come nella fantascienza degli anni Cinquanta), in cui perfino il disagio sociale dei nostri bambini nelle scuole viene medicalizzato ed etichettato secondo categorie “tecniche” e psicologiche gonfie di ideologia integralista.
I mezzi ci sono, basta usarli in modo intelligente e critico
Eppure, i mezzi ci sono, sono lì a disposizione, anche se il mercato non a caso spesso ce li toglie e ce li nasconde prima ancora che abbiamo il tempo di conoscerli e quindi consapevolmente di sceglierli, anche se l’assuefazione al consumo individuale e al “pensiero passivo” indotto da un’alfabetizzazione planetaria di tipo televisivo ci preclude possibilità immense che si possono liberare, data la complessità dei compiti e dei linguaggi, solo con un approccio attivo e di gruppo. Sono anche tecnicamente facili i mezzi, e potremmo tutti impararli “giocando”, come accade in molte esperienze con i bambini, ma anche con donne e uomini di tutte le età che, partendo da zero e soprattutto da loro stessi, dimostrano come, con una diversa organizzazione mentale e un approccio culturale adeguato, oggi, senza chiedere il permesso a nessuno, sia praticamente possibile produrre e pubblicare noi, dal basso, con qualità e consapevolezza, i giornali, i libri, la televisione, i siti internet, le mappe per la navigazione sul telefonino, così come condividere conoscenze e pratiche applicabili a diversi settori dei servizi, dell’agricoltura e dell’industria, ottimizzando con la tecnologia le risorse nel rispetto delle persone e non il cieco sfruttamento.
A patto che capiamo che in questo mondo, invece di limitarci a subirlo, a guardarlo dal di fuori, a descriverlo come se non potessimo cambiarlo o addirittura come se non fosse affar nostro, possiamo viverci meglio (ma tanto meglio!) solo se ognuno di noi si assume anche la sua piccola parte di responsabilità, tutti i giorni, quando utilizziamo gli strumenti meravigliosi di partecipazione che la tecnologia di oggi ci offre.
Pensiamo per esempio a una cosa come Facebook che, invece di una rete privata che vive sulla pubblicità e sulla vendita più o meno trasparente dei nostri dati, fosse un luogo pubblico i cui algoritmi permettano ai cittadini del pianeta di esercitare un controllo democratico permanente (non solo spettegolarci sopra) sull’operato di politici e amministratori, se rispettano i loro doveri e il loro mandato, se agiscono in modo onesto e trasparente!
Urgente un cambio radicale di mentalità
Certo, questo esigerebbe un cambio radicale di mentalità. Ma non ci ripetono tutti i giorni come un mantra che nel mondo di oggi tutto sta velocissimamente cambiando? E davvero pensiamo che le cose possano “cambiare”, se noi manteniamo fondamentalmente la stessa testa, cultura, abitudini e vizi di prima? Questo oggi succede anche perché è funzionale all’attuale mercato, perché utenti analfabeti comprano di più, ma un mercato basato sulla vendita di aggeggi (hardware, come negli anni Sessanta del secolo scorso!) ha sempre meno respiro (non è che certe crisi economiche, politiche e sociali ricorrenti e ormai endemiche capitano per caso!) Il futuro – e da un’analisi seria dell’innovazione non limitata agli ultimi mesi, ma magari estesa con attenzione agli ultimi decenni, la cosa risulta abbastanza chiara – è soprattutto software, che non solo significa più progresso, anche meno sprechi, meno inquinamento, ottimizzazione delle risorse grazie al pensiero partecipato e condiviso.
Pensare, studiare, capire e approfondire molto insieme
E se si pensa che un siffatto cambio di direzione per gli umani sia difficile, il mondo invece è pieno di esempi che dimostrano che può succedere, e anzi è facile, indolore, addirittura piacevole e soddisfacente.
Soprattutto con i bambini e i ragazzi (alternativamente etichettati come “nativi digitali”, una nuova specie già automaticamente nel “futuro”, o bollati in blocco come ormai strutturalmente incapaci di attenzione, e comunque quasi mai considerati per le persone reali che sono) facilmente si verifica che, anche quando apparentemente sembrano dispersivi e incontenibili, se gli dai in mano gli strumenti e la responsabilità di usarli, si mettono a fare cose che molti neanche si immaginerebbero, con precisione, competenza, senso di responsabilità personale e collettivo. Succede quando “gli capita”, quando ne hanno l’occasione una volta ogni tanto. Succede che si scoprono d’incanto responsabili e collaborativi, e fanno, producono, si divertono un sacco.
E se li educassimo, se ci educassimo così, se diventasse un’abitudine?
Molto probabilmente – bisogna pensare, studiare, capire, approfondire molto insieme, il mondo globalizzato e tecnologico non si cambia con pochi slogan! - abbiamo un grande futuro possibile nelle mani, di democrazia e cittadinanza attiva. Si tratta di saperlo e di incominciare a fare qualcosa davvero per liberarlo.
Paolo Beneventi
Giugno 2018